Joseph Jacotot (1770-1840), professore e pedagogo, credeva in un «principio di analogia universale»; il fatto che il particolare è collegato al tutto e vice versa. Jacotot amava ripetere: «tutto è in tutto». A un certo punto della sua vita turbolenta Jacotot si trovò nella condizione di dover insegnare quello che non sapeva. Per strano che possa sembrare, ci riuscì. Il maestro ignorante è il titolo del bel libro che il filosofo Jacques Rancière ha dedicato a questo metodo paradossale[1].
Alessandra Spranzi è più e meno di una fotografa. Le interessa guardare più che fare, selezionare più che produrre, ritagliare più che aggiungere. Le è indifferente chi sia l'autore dello scatto originale. Le fotografie sono prima di tutto il luogo primario in cui mettere a fuoco la sua attenzione. Ogni immagine da lei scelta diventa oggetto di un'indagine (una specie di amore) che non termina mai. Molte delle sue opere – spesso organizzate in serie – hanno a che fare con foto scattate, stampate, impaginate da altri; immagini utilizzate originariamente con uno scopo preciso: illustrazioni di un libro scientifico, annunci di vendita e così via. Queste immagini, raramente rielaborate (e comunque con tocco leggerissimo), spesso corredate di una “fisicità” (il retino tipografico, il bordo di un ritaglio) vengono sottoposte allo sguardo dell'artista: rinascono. Ma come?
Fin da ragazzo, Jacotot “non accettava nulla sulla parola, respingeva tutto ciò che non capiva chiaramente. Diventato insegnante, nei suoi discorsi si limitava a enunciare semplicemente l’argomento e i vari aspetti della discussione; dava in seguito la parola agli studenti, ma li spingeva continuamente verso la vita e l’azione, li metteva in condizione di progredire tramite il loro lavoro e l’uso delle proprie capacità. “L'allievo deve vedere tutto da se stesso, paragonare incessantemente e rispondere sempre alla tripla questione:
cosa vedi? cosa pensi? cosa fai?”
Anche Alessandra Spranzi sembra non accettare alcuna immagine “sulla parola”. Guardare, guardare e ancora guardare. Quante possibilità stanno nascoste in quella penombra, bisogna esaurirle tutte. Ogni particolare è un possibile indizio, pur sapendo fin dall'inizio che non c'è una sola storia da ricostruire e che tutte le storie possibili sono legittime (sebbene ce ne siano alcune oggettivamente più commoventi, più drammatiche, più ridicole di altre).
Il problema di Jacotot era l’emancipazione: che ogni uomo del popolo possa concepire la sua dignità di uomo, prendere la misura della sua capacità intellettuale e decidere del suo uso. Riteneva che in presenza di un libro (di aritmetica, di ebraico) non ci fosse bisogno di ulteriori spiegazioni. La funzione del buon insegnante non è quella di controllare che l'allievo sappia quello che lui stesso – l'insegnante sapiente - sa. Al contrario, “l'ignorante farà di meno e di più a un tempo. Non verificherà ciò che ha trovato l'allievo, verificherà che questi abbia cercato davvero. Giudicherà se abbia fatto attenzione”.
Sostituiamo immagine a libro, artista a insegnante e pubblico ad allievo: otterremo un'approssimazione del metodo di Alessandra Spranzi. Con la differenza che la sua è una verifica preventiva, ed è una verifica delle immagini, non del pubblico. Ci offre un enigma: non si tratta di scioglierlo ma di riconoscerlo come tale. Alessandra Spranzi si prende cura delle immagini, le accompagna (un'etica dello sguardo). Immagini che indicano piccole meraviglie... La sua opera di mediazione sta al di qua, non al di là delle immagini quando, proponendocele come opera, ci fa inciampare su di esse, regalandoci istanti di un'altra vita.
[1] . Jacques Rancière, Le Maître ignorant: Cinq leçons sur l'émancipation intellectuelle, 1987. Il maestro ignorante, Mimesis, 2009